IL GRUPPO BASSA PADOVANA – STORIA, ATTIVITÀ , PUBBLICAZIONI –
MUSEI CIVICI ARCHEO-ETNOLOGICI
Nel ‘Museo Civico Etnografico di Stanghella’, creatura scaturita (e oggi ne porta giustamente il nome) dall’immaginifica caparbietà di Camillo Corrain ‘Padre-fondatore’ del Gruppo Bassa Padovana (GBP), esiste una grande sala totalmente dedicata all’esposizione in piano della mastodontica Mappa catastale del Retratto del Gorzon, disegnata da Hercule Peretti per ordine dei Provveditori sopra li Beni Inculti, una magistratura burocratica veneziana, e sottoscritta dallo stesso il << 20 Gienaro 1633 in Este>>. È una delle maggiori rappresentazioni cartografiche esistenti in Veneto, comprendente gran parte dell’attuale Padovanabassa. In essa vengono descritte con minuzia la rete idraulica e le parcelle coltivate o incolte, col nome del proprietario e l’estensione, mentre le case sparse e i nuclei abitati sono raffigurati in vedute prospettiche, il tutto denominato con un inchiostro tannico marrone.
La strepitosa Mappa offre in sé una straordinaria occasione di recupero toponimico e permette un retrosalto di quattro secoli, resuscitando voci prolungatesi fino all’epoca moderna, alcune create allora da poco o rinnovate, altre già fissate da consuetudini vetustissime.
Con la fine della Signoria Carrarese e l’avvento della Serenissima Repubblica, tra quattro e cinquecento, (ri)conquistarono la Bassa casate aristocratiche, grandi monasteri e santi vecchi e nuovi. I loro nomi si sono fissati nella materialità dei luoghi, riflettendo i primi la presenza veneziana, i secondi un contingente dinamismo religioso che sembra avere assecondato più la ben orchestrata occupazione del suolo che spontanei movimenti ‘missionari’ o autonome scelte di culto. Si trascrive a immediata chiarificazione: val de Pocastro, canal Zen, via nuova delli Mag[nifici] Pisani, condutto particolare dei Mag. Fratelli de Ca Pisani, sgarba della M[agnifi]ca M[adon]na Paula Pisani, fossa de confin de Ms. [Missier] Paulo Conte, K. [Ca’] Cumani, K. Morosini, K. Nani, rotta del Lando, canal de S. Bonefatio [i conti…], cuore de M.ci Dandoli, Contrà di Nigri, degora Bolduta, arzere del Barbarigo. Sono i cognomi illustri (non solo del patriziato marciano) che, da apposizione indicante generico possesso o imprese bonificatorie, si sono identificati presto con le proprietà stesse, ridotte a unità agricole produttive e affittate: alle Zabarelle, le Catriate, le Fibe, le Chamuse, le Cironte, le Alvisete, alle Taviane, le Renaldine, alle Bressane, le Pelegrine.
Sintomatica l’azione di Almorò Pisani, acquirente dei locali domini estensi posti all’incanto dal Senato Veneto il 30 dicembre 1467. Con una decisa politica di accorpamento, i Pisani costituirono una specie di feudo familiare, ristrutturando l’ampio comprensorio in quattro fulcri aziendali e portandone avanti insieme la bonifica e il ripopolamento: la Pisana di Solesino, Stanghella, Vescovana e Boara.
Un salto all’indietro di quasi due millenni consente invece l’origine antroponomica di alcune denominazioni prediali. Tenendo conto che nel catasto originario si indicava ogni appezzamento, detto praedium o fundus, seguito dal nome aggettivato dell’assegnatario, è questo secondo termine che in genere ha dato vita al toponimo. A titolo esemplificativo, Carmignano è stato generato dal nome ‘Carminius’, di probabile ascendenza venetica; Passeggian, tra S. Margherita d’Adige e Ponso, dal latino ‘Passilius’; Barbugian di S. Urbano da ‘Barbuleius’; Contrà delli Angarani, tra Villa e S. Elena, da ‘Ancarius’; via del Guzan, verso Merlara, da ‘Acutius’; Vallerana in Casale di Scodosia da ‘Valerius’; Orbana, Urbana, da ‘Orbius’ (?). Risultano tutte caratterizzate da suffissi che rinviano, con buona probabilità, ai proprietari d’epoca imperiale o tardoromana, con una distinzione in ipotesi stimolante i toponimi che finiscono in -ano, -ana e che potrebbero evidenziare il possesso di una determinata gens romana o di un indigeno romanizzato; quelli in -igo, -iga si riferirebbero invece a proprietari gallo-romani, quindi d’origine celtica, tenendo conto che l’area veneta nel momento della romanizzazione era già stata <ampiamente permeata da ondate galliche> (G.B. Pellegrini). La toponomastica prediale rivela insediamenti che vanno dall’epoca di romanizzazione intensa, avviata nel primo secolo ineunte dell’era cristiana, a quella longobardo-franca, dal medioevo comunale all’età veneziana. I micro-insediamenti coprono tutta la fascia della Bassa e i più remoti fanno immaginare un territorio abbastanza popoloso già agli albori dell’età imperiale e organizzato per sfruttamenti agricoli intensivi. Vicende climatiche e storiche hanno in seguito creato una pesante frattura, mutando l’ambiente con sfaldamenti e diradamenti abitativi, ripristinando una realtà fisica dominata dalle acque esondanti, così com’era all’affacciarsi dell’uomo nelle età del bronzo e in epoca protostorica, non al punto però da cancellarne l’antropizzazione, favorendo anzi una resistenza che alla fine s’è mostrata vittoriosa grazie alla tenacia degli abitanti che non abbandonano tanto facilmente spazi e luoghi fino a quando esista una sia pur minima possibilità di sopravvivenza.
Un visitatore che muovesse adesso alla scoperta del circùito bassopadovano porterebbe con sé immagini impressioni e sensazioni piuttosto diverse da quelle che oltre mezzo secolo fa riempivano occhi e mente di quanti stavano maturando l’idea di un Gruppo che avesse quale motivo ispiratore le vicende di paesi rischiarati da luce riflessa, assoggettati psicologicamente ed economicamente ai centri-guida dei tre comprensori costituenti grossomodo la Bassa: il Monselicense l’Estense e il Montagnanese, con l’importante appendice della Scodosia e qualche timida intrusione del Conselvano. Il panorama odierno di paesi e quasi-città s’è trasformato in un itinerario caoticamente ossessivo, con gli abitati che sembrano confondersi l’un l’altro, con insediamenti filiformi cresciuti quasi senza soluzione di continuità lungo le principali arterie, con aree industrial-artigianal-commerciali stringenti in una morsa pericolosamente soffocante i centri storici o che s’incuneano proterve, come pure troppi capannoni isolati, in spazi fino a ieri dediti in toto all’agricoltura. Certo, le piazze i palazzi le mura e i belvederi collinari, le chiese le ville e persino i capitelli di qualche contrada stanno ancora lì, ma la solennità monumentale di molti tratti della campagna nostrana s’è smarrita, come si è perduto il senso di affratellamento con la Natura, violentata o depauperata dallo sfruttamento intensivo delle terre coltivate, privandole di siepi e alberate salvifiche che si stanno solo adesso timidamente e saggiamente ripristinando. In effetti, spingendo lo sguardo oltre la ramificata ragnatela stradale lucida d’asfalti più o meno recenti e proliferante con nuovi invasivi tracciati, è possibile ancora incontrare spazi serenanti, specie nella fascia prossima all’Adige e ai corsi d’acqua che rigano la Bassa dopo le poderose bonifiche d’epoca veneziana.
Esemplare l’ampio ritaglio inselvatichito della località ‘Bosco dei Lavacci’, che dalla Grompa di Villa Estense s’allunga verso Vescovana: è l’area golenale compresa tra il canale Masina e il più familiare Gorzon, toccando pure i comuni di Sant’Urbano e Granze; potremmo anzi considerarla una specie di paleo-ambiente, ricordo di habitat estinti, là dove creature terragne e acquatiche, uccelli e piante vivevano in simbiosi pacificata (o quasi) con l’essere umano, uno degli abitatori e non il più importante e distruttivo.
Tuttavia l’aggressiva cementificazione del territorio, il pervasivo inquinamento e il diuturno affannoso scorrere del traffico automobilistico ne fanno isole obsolete, a volte fastidiose. È il progresso, si obietterà, che ha portato benessere economico, cancellando (del tutto?) l’assillante povertà delle generazioni vissute qui appena ieri e che hanno dato i natali a molti di noi. In più la fatica stremante del lavoro contadino, fatto di braccia e di forza animale, è stata sostituita quasi completamente dalle macchine, tanto che la parola ‘contadino’ è uscita dal vocabolario e dalla sensibilità diffusa. Ci si può chiedere, ancora, dove stanno gli ultimi testimoni della nostrana antica cultura rurale, oscurata da sempre dall’indifferenza o, peggio, dall’irrisione delle classi colte. Pochi davvero oggi i sopravvissuti, confinati nelle Case di riposo o affidati a improvvisate ‘badanti’. A quella umanità, dunque, si sono ispirati i fondatori del GBP consapevoli che la quasi totale estraneità al bagaglio libresco di cui erano portatori, creato da scuola e università, non era per nulla d’ostacolo al desiderio di penetrare in profondità nella sua storia e nelle sue storie. Si era capito, d’impulso e grazie al paesano radicamento di genitori e nonni, che gli strumenti d’indagine cólti andavano sostanziati dal senso della vita della gente umile, dimessa, che aveva affidato alla terra pensata maternale ogni speranza di sostentamento. Uno ‘spazio’ antropico da esplorare lungo tutta l’estensione cronologica possibile: dall’individuazione dei paleoalvei del fiume-padre, l’Àtesis, con la significante radice onomastica forse pre-venetica, ai millenni avanti Cristo portatori dei primi insediamenti documentabili; dalla lenta e riordinata colonizzazione romana all’abbandono e al ripopolamento legati a un medioevo oscurato da scarse cognizioni e pregiudizi pure in àmbito dotto; dalla rivoluzione socio-economica provocata dalle bonifiche veneziane agli innumerevoli rivoli delle vicende otto-novecentesche vissute dagli attori senza volto dell’epopea contadina.
In effetti il Gruppo mosse i primi passi con l’entusiasmo dei neòfiti e della giovane età, non avendo ancora un cammino ben tracciato, mancando la percezione concreta dell’impegnativa dimensione di un approccio storico-divulgativo che aveva trovato subito terreno propizio fra i banchi di scuola. Si sentiva infatti di dover sfruttare non solo e non tanto il versante scientifico-accademico, necessario comunque quale base di partenza e di confronto, quanto e più d’indirizzarsi alla ricerca di un colloquio da instaurare con la maggioranza degli abitanti che si percepiva estranea alla conoscenza e al recupero del passato comunitario; del suo passato, non c’era quasi traccia (e, se c’era, appariva in genere negativa) nei lavori dei molti affannatisi a esaltare le ‘glorie’ municipali tentando d’illuminarle con la limitante cronaca chiesastica e di nobilitarle richiamandosi, quando possibile, ai grandi personaggi che, nella concezione diffusa, avevano fatto la storia. Occorreva rimboccarsi le maniche, andare controcorrente. Le colonne portanti degli studi avviati dal Gruppo Bassa Padovana erano costituite da due elementi fondamentali: i locali, inesplorati materiali d’archivio, con al centro la grande Mappa del Retratto del Gorzon, e la ricerca archeologica ‘vagante’ nel senso che ogni terreno era sottoposto a una diligente ricognizione, profittando di arature o della palificazione di linee elettriche minori, incuneate a ragnatela tra campi e carrarecce.
L’esame cartografico e autoptico dei luoghi individuati divenne in tal modo una delle armi vincenti, specie se sorretto da ‘strumenti’ di ultima generazione come le foto aeree a raggi infrarossi. Assumendo quale termine di confronto l’intera Bassa Padovana, risultò infatti didatticamente produttivo poter seguire, anche negli esempi considerati a partire dal cinquecento, il succedersi variato delle tecniche di rappresentazione con gli adattamenti che l’uomo ha provocato nell’arco di alcuni secoli, passando, come s’è visto, da un ambiente paludoso, ricco di acque stagnanti in bassure con grandi laghi (come quelli di Vighizzolo, di Cuori e della Griguola tra Solesino Pozzonovo Stanghella e Anguillara), a un reticolo di canali artificiali ridisegnato in funzione della programmata bonifica intrapresa con i ‘retratti’ veneziani e conclusa dagli interventi a cavallo delle due guerre mondiali.
La Bassa ha avuto la ventura di assistere, nel breve volgere di cent’anni, al succedersi di ben tre dominazioni: la veneziana la napoleonica e l’austriaca. L’indagine cartografica evidenziava intanto, con tratti simbolici, tali passaggi storici e le lingue usate nelle didascalie, latino veneziano francese tedesco e italiano, testimoniano un ibridismo di cui oggi magari ci scandalizziamo, sopraffatti comunque da esotismi e neologismi forsennati oppure vittime di un linguaggio tecnologico di matrice inglese, convinti insieme di una trascorsa purezza espressiva calata in un ieri monolitico mai esistito.
Avviatosi pertanto il Gruppo attorno al 1970 nel contesto scolastico e sulla strada della sistematica ricerca onnicomprensiva, divenne imprescindibile elaborare uno Statuto che ne definisse meglio scopi e confini e all’uopo venne organizzato nel ’75 un incontro per la presentazione al pubblico del monumento cartaceo, la più volte citata Mappa del Peretti, su cui avrebbe poggiato in seguito una delle irrinunciabili chiavi di volta del Museo Etnografico stanghellano. Notevole, in quel contesto, fu l’annuncio di voler aprire il Gruppo ai non insegnanti, un passo ineludibile per ampliare azioni e coinvolgimento, avendo compreso che il recinto scolastico non bastava a suscitare il cercato, costruttivo dialogo con la popolazione dei paesi bassopadovani, accettando e/o sollecitando anche la collaborazione degli Istituti locali affini come le Biblioteche comunali, allora in fase d’avvio, o le Pro loco oppure la sinergia con Associazioni culturali già presenti e attive.
Il successo dell’atteso appuntamento e la curiosità suscitata convinsero ad affrettare i tempi; per ciò il 27 aprile venne indetta una specifica riunione con un solo punto all’ordine del giorno: ‘Stesura di un abbozzo di Statuto del Gruppo concordato da tutti’. Il fatidico luogo della riunione era fissato alle Valli di Megliadino S. Vitale, in una vecchia casa bracciantile abbandonata: lì, in uno spazio che odorava ancora di ‘in-culto’, il comitato promotore avrebbe potuto discutere con tranquillità, pregustando magari quanto cuochi più o meno improvvisati s’apprestavano a rosolare sulle braci d’un annerito fogolaro. Era uno di quei ‘pranzi all’aperto’ tanto cari a Camillo Corrain, durante i quali si smussavano eventuali attriti facendo crescere nel contempo reciproca conoscenza e cameratismo, necessari al buon esito di quanto si stava progettando. Tra le mani circolavano intanto copie fresche di stampa dei fascicoli ciclostilati con le relazioni presentate nei primi seminari, mentre stava prendendo forma un’altra idea ‘geniale’: quella di arrivare nei paesi con qualcosa di tangibilmente visivo, come una ‘Mostra documentaria’ itinerante, da spostare profittando delle sagre o d’altre propizie manifestazioni sociali.
La prima esperienza venne affidata alla ‘Mostra di ceramiche medioevali’ che prese le mosse da Monselice, ospitata nel cuore del centro storico, al pianoterra del prestigioso Palazzo della Loggetta, sede antica del Monte di Pietà. Assecondando gli iniziali intenti, s’era aperta un’ampia discussione sulle tematiche suscitate dal Gruppo, coinvolgendo altri nuclei attivi sul territorio. In primo piano, per esempio, si collocava Battaglia Terme, con la Biblioteca-Centro culturale e sociale ‘C. Marchesi’, promotrice di un convegno intitolato ‘Un libro di testo nuovo per una scuola rinnovata’, con interventi concordemente critici nel sottolineare il palese disinteresse, sia pur non totalizzante, per l’insegnamento della storia locale o, comunque, il disorientamento nel definirne modi e confini. Nelle comunità più piccole erano ancora le parrocchie a farsi promotrici di una riscoperta indirizzata, indistintamente, agli adulti e agli studenti della scuola dell’obbligo, profittando magari della disponibilità economica degli Istituti bancari, Casse Rurali in prima fila. Il valore di tali testimonianze scritte appariva spesso (e lo è tuttora) discutibile: si voleva rinnovare in qualche modo una produzione che aveva trovato nell’ottocento e nei primi decenni del novecento un terreno assai fertile con risultati sovente apprezzabili, ma nel concreto in molti compilatori prevalevano la fretta e il desiderio di approntare in qualche modo strumenti ritenuti di prestigio per il paese che li ispirava. Si tendeva così a colmare empiricamente uno spazio lasciato libero dalla produzione strettamente scientifica, togata, legata alla ricerca universitaria che sembrava dilettarsi del particolare, evitando le sintesi più popolari e accessibili.
C’era in atto, è vero, un’inversione di tendenza e qualche tesi di laurea si spingeva a esplorare contesti ritenuti fino a poco prima di scarso credito: il più delle volte però i lavori rimanevano (e rimangono purtroppo) confinati negli archivi di Facoltà, pagine silenti di una fatica per noi pressoché inutile. Nel contempo, accanto alla pubblicazione di una ‘storia’, nasceva pure l’occorrenza di raccogliere le testimonianze del passato, soprattutto della civiltà contadina così pregna di fermenti e giunta al limite di un irreversibile processo di dissoluzione o, meglio, di totale mutazione. E non erano soltanto gli aspetti folclorici che si volevano salvaguardare: in aree ricchissime di vicende come tutti i paesi d’Italia si poneva insieme il problema dell’archeologia, antica e medioevale, della valorizzazione dei monumenti e di un ambiente vario e sempre originale.
Ecco emergere allora il tema affascinante del ‘Museo locale’, lontano il più possibile dalle remore di un controllo statale, burocratico e imbalsamatore. L’indirizzo di fondo era quello di puntare a un agile ‘Museo didattico’, magari non localizzato in un unico edificio, aperto e strettamente integrato con strutture già disponibili come ad esempio le Biblioteche. Tale svolta, che si allontanava molto dal concetto tradizionale di museo, trovava adesso la sua incontestabile giustificazione nel crescente interesse per la storia locale, un interesse che saliva dal basso e poteva finalmente essere meglio orientato e soddisfatto.
Per questi e altri motivi al Gruppo B.P. sembrava maturo il tempo di attivare un proprio modello di museo didattico, meglio se paesano, centro motore di attività inerenti alla realizzazione di piani di ricerca più o meno ampi, di strumenti scientifici scritti e non, sonori o per immagini e finalizzati allo studio della storia locale. Comunque, parlando di storia locale e di ricerca dal basso, bisognava badare poi a un altro aspetto molto importante, che stava condizionando il dibattito teorico su tali discipline: il valore cioè della ‘testimonianza orale’, reperibile in loco e utile a esplorare vasti campi della vita di comunità attraverso i contributi attivi di almeno tre generazioni, ma implicante un discorso assai complesso e problematico, specie per l’ambigua scientificità di interventi che potevano apparire troppo approssimativi, partigiani o privi di possibilità di verifica. Era facile comprendere allora come la pur decisiva proposta del museo locale comportasse una lunga fase di dibattito, di preparazione, di studio e di riflessioni, in rapporto pure alla professionalità degli operatori sprovvisti in genere di nozioni pratiche e teoriche.
Nel frattempo l’attesa pubblicazione di un altro dei molti quaderni del Gruppo B.P., della “collanina” rossa che stava prendendo corpo, permise di proporre un inedito esperimento. Profittando del titolo, ‘Vecchio mondo contadino e manufatti preistorici nella Bassa Padovana: analogie e ipotesi di convergenza’, si pensò di allestire la seconda Mostra itinerante mettendo a confronto l’antica ‘civiltà’ nostrana con quella, famosa e ben più studiata, dei Camuni, la popolazione alpina che ha lasciato tracce del suo plurimillenario cammino incise sulle rocce della Val Camonica. Il successo non mancò, per numero di visitatori e per i favorevoli riscontri giornalistici, ma in una dimensione più intrinseca la Mostra assunse per il Gruppo un significato che oltrepassava le evidenze immediate: costituiva, grazie all’originale cataloghetto, il riuscito tentativo d’una sintesi provvisoria del lavoro di scavo in atto e in più direzioni, un’irrinunciabile azione esplorativa continuatasi poi negli anni, diventando una delle pietre d’angolo della sua testimonianza culturale.
Il tempo scorreva veloce, tra iniziative di vario genere e la caparbia ricerca sul campo, e il già movimentato ’84 si chiuse con un altro festoso traguardo, l’uscita del sesto quaderno della collana, con un impegnativo e promettente titolo: ‘Territorio e popolamento in Bassa Padovana’. Il volume, abbondantemente illustrato, si presentava in veste più che dignitosa e raccoglieva, per la prima volta, la summa di una decennale esplorazione, di carattere archeologico-documentario archivistico e orale, avente per oggetto gli insediamenti umani. Il coordinatore dell’impresa, quanto mai onerosa e condotta senza alcun aiuto né pubblico né privato, era stato ancora una volta Camillo Corrain. L’idea-guida muoveva da un soppesato presupposto: che l’ambiente tardomedioevale del nostro territorio potesse essere simile a quello protostorico del Bronzo medio e recente, umido e fresco con la formazione di paludi nelle preesistenti conche naturali. Va ribadito ancora che l’inedito strumento per cui avevano preso avvio le indagini era la ‘famosa’ Mappa del Retratto del Gorzon’: la sua straordinaria precisione, con la dettagliata elencazione delle località minime e la traccia visiva di strade canali paludi e laghi, aveva infatti permesso un costruttivo confronto con la cartografia moderna. I risultati furono strepitosi: le ipotesi di partenza stavano trovando verifiche sempre più attendibili e le pagine del sesto quaderno raccontavano per filo e per segno l’incredibile avventura che, se confermata, avrebbe costretto la storiografia ufficiale a riprendere in considerazione molti luoghi comuni dati per scontati, come il passaggio solo per Este e Montagnana del ramo principale dell’Adige in epoca romana. Le prove fornite dagli estensori dei vari contributi erano comunque sufficienti ad aprire almeno un sereno e serio dibattito, nella speranza di coinvolgere finalmente gli studiosi di mestiere.
Al Gruppo bastava aver dimostrato che si poteva fare storia partendo anche dal basso, con l’umiltà di chi riconosceva senza ipocrisie i propri limiti, convinti insieme d’essere testimoni e portatori adesso di una conoscenza ‘povera’ sì, ma fondante, che perdurava accanto alla tradizione orale e al quotidiano e faticoso vissuto degli abitanti. Al diuturno esercizio sul terreno s’affiancavano comunque l’attenta documentazione bibliografica e l’esplorazione d’archivio. Si stavano infatti resuscitando, come per incanto, i nomi e le vicissitudini sovente drammatiche che avevano accompagnato giorno dopo giorno gli antenati, restituendo il vero ritratto di popolo della Bassa, senza infingimenti o voli pindarici. Ed era in atto un’importante collaborazione con alcuni docenti dell’Università di Padova, in particolare con Franco Fasulo, per un’inchiesta a largo respiro sulla demografia della Bassa nella prima età veneziana. I ricercatori, affinatisi nel metodo con seminari d’aggiornamento, avevano lavorato sui documenti di una ventina di paesi, da Castelbaldo a Masi da Santa Margherita d’Adige a Granze a Vighizzolo. Davanti ai loro occhi era emersa una quotidianità per nulla secondaria rispetto all’avviata ricostruzione storica del passato più o meno lontano. Sfogliando i preziosi tomi manoscritti, con le sequenze pluri-secolari di battesimi matrimoni e morti, s’illuminavano frammenti di una realtà nient’affatto immobile, trascurata piuttosto o travisata, come le correnti migratorie, le professioni o la tipologia familiare, le malattie e le epidemie, l’andamento dei prezzi o l’avvicendarsi delle colture. La pubblicazione dell’ottavo quaderno della succitata collana nel dicembre 1991, intitolato ‘Aspetti demografici in Bassa Padovana nei secoli XVI-XVII. Cronache costumi personaggi’, conferiva così alla Padovanabassa uno spessore criticamente aggiornato, resuscitando il positivo sotterraneo retaggio di una società innervata da braccianti e fittavoli, da pastori e artigiani, caratterizzata dall’intreccio dei soprannomi dei clan familiari, dall’assuefazione a modi d’essere tendenti a cristallizzarsi o a evolvere assecondando gli eventi più dirompenti come le epidemie o i rivolgimenti politico-economici, il tutto dominato da una capillare presenza religiosa, cadenzata da cerimonie e devozioni che hanno contribuito a sacralizzare fino a ieri ogni azione, individuale o collettiva, del mondo agricolo.
Dei quattro tratti più o meno decennali, percorsi a pieno ritmo dal GBP, potremmo intitolare il terzo ‘Gli anni dei Musei’. L’idea di una raccolta museale serpeggiava, come s’è capito, da tempo; anzi nell’intimo pensiero di Camillo le selci lavorate e gli inumati di Selva di Stanghella (sua prima decisiva scoperta archeologica legata a un sito del Bronzo antico, di straordinario ma incompreso rilievo per tutto il basso Veneto), erano stati subito immaginati collocati in splendenti arche vitree da affidare alla reverente custodia dei paesani. All’inizio era stata l’individuale perseveranza a farsi carico dell’approccio museale, anche se le Comunità locali, ma non tutte, avevano poi fatto proprio e difeso il lievitante retaggio. In qualche caso invece il deposito documentario accumulato con infinita pazienza si è dileguato per grettezza di eredi o pel nocivo disinteresse di chi avrebbe dovuto e potuto assicurarlo alla pubblica fruizione. Quella riproposta dall’amico Camillo era in verità una ‘malattia’ virulenta, che contaminò l’intera Padovanabassa, tanto che oggi un territorio ‘piccolo’ come il nostro può vantare un’invidiabile concentrazione museale: da Stanghella a Montagnana, da Este a Cinto Euganeo, da Carceri a Urbana, da Granze a Villa Estense, da Monselice a Casale di Scodosia e Sant’Elena è tutto un susseguirsi di entità statali regionali provinciali comunali, e persino private, che potrebbe meravigliare un ‘foresto’ se non prendesse coscienza di un fatto inconfutabile: che a sostenere e a far maturare un fenomeno così ampio e capillare fu pure la mobilitazione del GBP, che suggerì e realizzò modelli inusuali e originali accanto ad altre forme sperimentate e calibrate dai fondatori ottocenteschi.
Tra il ’79 e l’83, con un’appendice nell’86, prese comunque forma e sostanza il ‘Museo Civico Etnografico’ di Stanghella che dal marzo 2019 onora, nella sua definitiva intitolazione, Camillo Corrain. Fu una battaglia dura ma avvincente; il Gruppo si strinse con calore attorno all’inesauribile Presidente. Nel ’94 ne fu pubblicato il ‘Catalogo-Guida’. Esso costituisce, pur nella sua essenzialità, un perfetto manualetto che invita a una successiva visita didattica, raccontando per immagini e parole le sei sezioni in cui il Museo si suddivide: l’Osteria, le Officine rurali, la Sala della Mappa del Retratto del Gorzon, la Sala dei documenti cartografici del territorio, la Sala della ruralità e la Sala della ceramica dal medioevo in poi, con un’ampia sezione dedicata ai preziosi reperti archeologici.
Proseguendo dunque nell’ineludibile itinerario tracciato, un altro decisivo apporto del GBP, volto a delineare un ritratto ‘dal vero’ del territorio tra Adige e Colli Euganei, è testimoniato a Villa Estense, presso il ‘Museo Civico dei villaggi scomparsi’. Questo fenomeno, replicatosi nei secoli se non nei millenni e in regioni diverse e tra loro distanti, ha assunto qui nella Bassa uno specifico rilievo alla fine del medioevo quando la tragica epidemia di peste nera falcidiò le popolazioni d’Europa, innescando una crisi demografico-economica che segnò, al dire degli storici, l’avvio del lento declino dell’Italia dopo l’àpice due-trecentesco. In più lo sviluppo urbanistico aveva già determinato una parziale fuga dalle campagne verso i più grossi centri di manodopera, richiesta in attività manifatturiere e dal fervore edilizio (basterà rammentare che le nostrane città murate devono in genere le loro alte, superstiti difese di pietre e mattoni proprio al XIV secolo, per non dire di chiese e palazzi), con la fondazione di novelli insediamenti favoriti dalle imponenti bonifiche iniziate nella seconda metà del ’500. Quattro sale attendono il visitatore; egli può usufruire del ‘Catalogo Guida’ pubblicato nel 1999 grazie all’intervento della Provincia tramite l’allora assessore alla cultura Andrea Colasio, particolarmente attento e sensibile alle problematiche perorate dal Gruppo. Nella prima saletta è ricostruito l’habitat del villaggio medioevale, sorto in genere tra i bordi rialzati delle paludi, i familiari dossi, e la presumibile superstite trama insediativa romana: erano nodi topografici restituiti pure da toponimi come ‘Calmana’ (immagino dal latino callis magna, oggi diremmo strada provinciale o regionale) e ‘Castellaro’, nel significato di antico luogo ‘fortificato’; numerose poi le località recanti tracce di popolamento addirittura preistorico, riferibili alle varie età del Bronzo, ripropostesi in epoca romana e altomedioevale. Le emergenze più rilevanti sono rappresentate invece nelle due sale successive. La seconda sezione è dedicata infatti all’antica Santa Colomba di Ancarano. Le foto aeree mostrano il chiaro disegno perimetrale del fossato scavato a protezione del villaggio e della chiesuola, l’iniziale nucleo cristiano il cui titolo è migrato da ultimo nell’attuale parrocchiale di Villa associato a quello di S. Andrea. La terza saletta è dedicata alla ‘Cesazza’ del Finale, località citata in una pergamena del 1077 come ‘villa Finale’, la cui presenza dev’essersi estinta prima di consimili insediamenti, ignorandone l’esistenza le visite vescovili quattrocentesche: probabile testimone oggi dell’originaria ubicazione è l’area cimiteriale individuata dai cercatori del Gruppo, fertile pure di frammenti in cotto d’epoca romana (èmbrici tegole anfore pesi da telaio) accanto alle diffuse tracce di vasellame databile fra XI e XII secolo. Nella parete opposta spicca la ‘memoria oggettiva’ di ‘Santa Cristina de Vescovana’, altro nucleo ben documentato da ‘carte’ risalenti al basso medioevo e da un disegno vergato sulla Mappa del Retratto, una chiesetta miracolosamente restituita dalla risacca del tempo, sospingendo quindi avanti i propri ruderi almeno fino al cinquecento, quando i suoi preti potevano ancora vantare diritti, penso decimali o livellari, su luoghi circonvicini. La visita permette così un’insolita immersione in un ieri millenario, tanto più accattivante se consideriamo la ‘povertà’ dei reperti, trascurati in genere perché ritenuti irrilevanti.
La terza tappa, di questo palpitante retrocedere nel tempo alla ricerca delle radici nostrane, è costituita invece dal minuscolo ‘Museo della centuriazione romana’ di Granze. La scelta è stata motivata dal fatto che la località si trovò al centro delle assegnazioni di terra coltivabile ai veterani dell’esercito imperiale nei decenni attorno alla metà del primo secolo dell’era cristiana. Il percorso inizia con la presentazione di quattro carte tematiche che, a varie scale, illustrano gli interventi di sistemazione agraria di carattere centuriato in tutta la Bassa Padovana. Tali azioni di bonifica vennero probabilmente reiterate, nel corso del II-III sec. d.C., a causa di problemi legati allo scolo delle acque, come risulta ben leggibile dalle foto esposte nei pannelli luminosi. Il resto della sala è costituito da una serie di vetrine che espongono reperti legati al mondo dell’edilizia (frammenti di pavimentazione, intonaco, tessere musive, mattoni di diverse misure, tra cui alcuni bollati), della vita domestica (resti di anfora, olla e patera, pesi da telaio, schegge di ceramica grigia e sigillata, due pezzi di mattone con inciso il gioco magico-religioso della tria) e dell’universo funerario (frammenti di urna cineraria con residui di ossa, un ‘lacrimatoio’, un vasetto di ceramica sigillata e una moneta dell’imperatore Gallieno del 260 d.C.). Il reperto più rilevante è posto al centro: si tratta di un cippo gromatico di trachite con inciso sulla sommità il segno di decussis, vale a dire a forma di X (simbolo del numero dieci), a indicare il suo orientamento. Per esaltarne l’importanza e la funzionalità, è stata ricostruita, sopra lo stesso, una groma in legno sull’esempio di quella ritrovata durante gli scavi di Pompei.
E d’un angolo ‘paradisiaco’, immerso in una dimensione atemporale, occorrerebbe parlare dicendo di San Salvaro, lungo il Fratta, il quarto pilastro dell’edificio museale creato dal GBP. Luoghi suggestivi, carichi di eventi appena intravisti nel silenzio delle fonti scritte, una storia dormiente in attesa pure questa d’essere, chissà, resuscitata e a cui s’è posto mano col bel volume ‘Comunità in cammino. Urbana’, edito nel 2016 a cura di Camillo Corrain, Roberto Soliman e Mauro Vigato. È nella restaurata ala monasteriale d’un fabbricato in rovina, acquistato da Parrocchia e Comune nel 1995, che si è insediato alla fine degli anni ’90 il ‘Museo delle antiche vie della Bassa Padovana’, l’ultimo nato della covata ma non meno importante ed evocativo. La Sala dei trasporti è ricavata nel chiostro parzialmente ristorato: espone mezzi di locomozione per derrate su terra e acqua, con i finimenti degli animali da tiro. La contigua Osteria, ripetizione non pedìssequa della stanghellana, sta a significare l’accoglienza che viandanti e pellegrini ricevevano dai monaci lungo itinerari fangosi e polverosi, sovente più viottoli che strade, minacciati da pericoli d’ogni genere. Nella superiore Sala della cartografia storica i pannelli documentano tracciamento e sviluppo degli antichi percorsi viari, mentre la Sala ergologica dell’artigianato e del gioco di strada contiene attrezzi cari agli artigiani di campagna, con fàvari marangoni e scarpari, cui s’affiancano gli strumenti adatti a coltivare e a lavorare la canapa, un prodotto caratterizzante le nostre Valli, imposto e sorvegliato dalla Serenissima Repubblica che requisiva il raccolto dell’intera Scodosia concentrandolo nella ‘Tana’, nell’apposito magazzino di Montagnana. Con l’entrata trionfale degli amici di San Salvaro tra i sodali del Gruppo Bassa Padovana si concludeva un altro decennio di conquiste, onerose specie sul versante economico giacché le casse del Gruppo erano (e sono) regolarmente vuote né potevano riempirsi con le scarse sovvenzioni degli enti pubblici ai quali si faceva di necessità riferimento.
Si sentiva comunque che un lungo ciclo stava per chiudersi, suggestionati pure dall’imminente fine del secondo millennio: al terzo avremmo affidato nuove speranze e nuovi traguardi. Nel febbraio 2003 è stato presentato al pubblico il ‘Catalogo-Guida’ dell’Archivio del Museo Civico Etnografico di Stanghella, edito dal Comune e curato da Marco De Poli in collaborazione con Camillo Corrain e Francesco Bottaro. Nella premessa si sottolineava la varietà dei fondi esistenti: dal più rilevante detto ‘Polcastro’, donato dalla famiglia Centanini e originato dal cospicuo materiale amministrativo-contabile dell’aristocratica schiatta veneziana, ai registri di controllo delle attività produttive dell’agenzia di Casa Pisani, inerenti alle estese proprietà situate tra Vescovana e Boara padovana, e al fondo ‘Tosato’, una collezione di carte militari della Grande Guerra e di altro materiale topografico utilizzato per esercitazioni tattiche.
L’applaudita cerimonia, immersa in una festosa atmosfera, aveva concluso la scoppiettante campagna culturale d’autunno-inverno avviata nel 2002 con la rivisitazione del ‘Centro di documentazione delle bonifiche romane’ di Granze, collocato in una nuova sede che si sperava rendere funzionante con regolarità grazie al coinvolgimento dell’Amministrazione comunale, e col basilare convegno ospitato nell’evocativa cornice medievale di San Salvaro, intitolato ‘Problemi di assetto territoriale in epoca romana tra Brenta e Adige’. Il qualificato consesso assunse un’importanza decisiva non tanto e non solo pei risultati messi in fila dalle esplorazioni del Gruppo e degli studiosi via via aggregatisi, quanto per la presa d’atto di autorità statali e accademiche, asseverando con la loro fattiva presenza un punto fondamentale: che la ‘rivoluzione’ conoscitiva proclamata a gran voce dal GBP poteva essere oramai recepita o, almeno, presa in seria considerazione. Decisivo il dibattito storico suscitato in Padovanabassa dalla scoperta delle suaccennate, plurime tracce centuriate (che tuttora, comunque, vengono negate o sminuite) d’epoche diverse e intersecantesi, legate al principale ramo atesino con i suoi diversivi secondo una mappa innovativa che Camillo Corrain e collaboratori stavano da tempo riesumando pazientemente sul terreno.
Dopo le ponderate elucubrazioni di studiosi e cercatori, una piacevole novità venne a colorare un 2004 un po’ ingrigito dalla routine a cui qualcuno s’era assuefatto. Esordiva infatti nell’autunno il complesso etno-musicale ‘Piva Piva Sona…’, sorto in seno al Gruppo, con lo scopo dichiarato di salvare e riproporre canzoni nenie e testi ballabili vivi fino a ieri, ricostruendo, quando possibile, l’impianto musicale e ritmico che s’accompagnava a queste espressioni del gusto popolare caratterizzanti momenti di lavoro di festa d’intimità o di dolore.
Infine il 6 maggio 2007 si inaugurava in forma ufficiale la nuova sede del ‘Centro di documentazione delle bonifiche romane’ di Granze con la gradita presenza di Simonetta Bonomi, un’illuminata studiosa, già funzionario della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Veneto, che s’era spesa per la valorizzazione del patrimonio da noi dissotterrato, contribuendo a sedimentare l’idea che le Raccolte municipali, se ben protette organizzate con criteri razionali e regolarmente fruibili, costituiscono un bene culturale da difendere e potenziare.
La prova ultima di questa apertura il GBP l’ha vissuta durante l’insolita conferenza stampa tenuta poco più di un decennio fa, nel giugno 2008, presso l’osteria del Museo capostipite, annunciante la provvisoria ripresa degli scavi a Selva (di Stanghella), proprio dove sono cominciate le straordinarie e incredibili vicissitudini degli anni ’60. Se ne è fatta promotrice Elodia Bianchin Citton, altra amica acquisita che svolgeva allora il benemerito ‘mestiere’ d’archeologa e tutrice presso il Museo Nazionale Atestino. Il valore assoluto in termini archeologici e storici dei reperti salvati e rivitalizzati dal GBP è stato confermato in maniera inoppugnabile, riproponendo adesso, alla fine d’un operoso cinquantennio, una nuova scommessa: riprendere alacri il cammino, disvelando ancora le tante ‘storie’ nascoste nella Padovanabassa, strappate solo in parte all’oblio da un Gruppo di persone accomunate da un forte spirito di servizio.
Ultima fatica del GBP è la recente pubblicazione nel 2020 dell’ennesimo volume della collana rossa dei quaderni, dedicato questa volta meritatamente al padre-fondatore e con affetto intitolato “Ab imo pectore – per Camillo Corrain – saggi e testimonianze”.
E il viaggio continua…